CULTURA. (Di Paola Monaco) Molteplici sono state ieri, in tutt’Italia, le iniziative che hanno inteso rendere omaggio al Sommo Poeta, “padre della lingua italiana”. Questo universale appellativo è stato scelto dalla dott.ssa Antonietta Pellegrino, dirigente scolastica del Liceo “Galileo Galilei” di Mondragone, per denominare l’interessante iniziativa, di singolare spessore culturale e valore educativo, da lei stessa realizzata per celebrare il Dantedì, evento commemorativo istituito lo scorso anno dal Consiglio dei Ministri su proposta dell’On.Dario Franceschini.
La data del 25 marzo, infatti, si fa convenzionalmente coincidere con l’anniversario della redazione del viaggio ultraterreno di Dante Alighieri, metafora della sua stessa dipartita, avvenuta 700 anni orsono.
L’incontro, tenutosi tramite piattaforma telematica, ha suscitato emozioni e riflessioni così intense da catapultare lo “spettatore” in una dimensione tanto viva e coinvolgente da abbattere ogni limite materiale e temporale.
Il trasporto emozionale ne è stato il leitmotiv. All’accurata presentazione della dottoressa Pellegrino, il cui merito è stato primariamente quello di combinare in maniera tanto creativa quanto strutturata interventi di varia natura e genere, è seguita l’appassionante lettura di alcuni versi del I e III Canto dell’Inferno, trasposti in dialetto napoletano dal caro estinto Professore Tonino Calenzo, che ne ha saputo mantenere lo schema metrico originario. Lavoro tutt’altro che semplice, frutto di fine acume e seria dedizione.
Più che di lettura sarebbe più appropriato parlare di recitazione. La dottoressa Antonia Amalia Bruni, sua consorte e artista poliedrica, ha declamato alcuni dei passaggi più significativi dei suddetti canti e, proprio in virtù della sua esperienza pluridecennale come attrice teatrale, è riuscita a trasmettere, oltre a sentimenti di commozione e stupore, il senso del lavoro stesso: la valorizzazione dell’identità di un territorio e delle sue tradizioni, inclusa quella linguistica. Così, mentre la Divina Commedia sollecita una riflessione sulla lingua italiana, oggi più che mai necessaria, la sua traduzione napoletana permette di cogliere alcune preziose gemme che da quel ramo fioriscono. “A metà d’’a vita d’’o tiempo mio/ me so’ truvat’ into ‘o peccato/ perdenn’ pace, ragione e Dio”. Così comincia questa fantastica avventura esplorativa nell’universo dantesco. Non si può, a questo punto, non esaltare la fresca e spontanea recitazione dei versi danteschi da parte dei giovani studenti, i veri protagonisti di questa iniziativa.
Il loro impegno, la partecipazione, l’attenzione nel restituire con la massima accuratezza il registro e il significato di quelle parole, riportate a vita nova attraverso quell’ardore che è proprio dell’adolescenza, è a dir poco incoraggiante. Nulla a che vedere con l’apatia e la passività di cui spesso li si taccia.
Una perla rara può definirsi anche l’intervento di Domenico Proietti, professore di Linguistica Italiana presso l’Università “L. Vanvitelli” di Caserta, le cui parole, seduttrici e ammalianti, sono state musica per gli uditori. Il proferssore Proietti ha messo in evidenza il rapporto tra Dante e la lingua, strumento necessario all’uomo – non agli angeli né agli animali inferiori – per estrinsecare i suoi pensieri: “Opera naturale è ch’uom favella; / ma così o così, natura lascia/ poi fare a voi secondo che v’abbella” (Par. XXVI, 130-132). A nessuno sfugge la meravigliosa capacità di Dante di sperimentare la lingua in modo forsennato e maniacale, come fece Bach con la musica. Ma cosa spinge l’uomo comune a “riappropriarsi” dell’opera dantesca nei modi più diversi, sezionandola, celebrandola, traducendola? L’amore sviscerato per quell’opera, l’“amor ch’al cor gentil ratto s’apprende”.
Dante ha fatto innamorare intere generazioni di lettori, realizzando incantesimi e magie con il suo volgare e la sua sconfinata cultura. E, tra un gioco di prestigio e l’altro, possiamo dire, senza retorica, che Dante ci ha fatto parlare la sua lingua, che tutt’oggi rimane impregnata del suo genio. Questo entusiasmante viaggio nel passato più nobile della storia della letteratura italiana si può concludere con il bell’augurio rivolto agli ospiti, al termine della conferenza, dalla stessa dottoressa Pellegrino: “E quindi uscimmo a riveder le stelle” (Inferno XXXIV, 139).
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