Quando sono a casa, il primo rumore al mattino che le mie orecchie sentono piacevolmente oltre agli uccellini che cinquettano è quello della moka. Qui in India gli uccellini sono i clacson. Del caffè invece, in questa Haveli, per il momento, nemmeno l’ombra.
Ho ancora un’ora di tempo e mentre gli altri si godono la frescura del mattino, io ne approfitto per lavare un po’ di cose sporche.
Dopo circa un’ora, riusciamo finalmente ad inoltrare nel nostro corpo qualcosa che ci servirà per affrontare la giornata e ci dirigiamo verso l’uscita in cui ci attende la guida. Solito giro in tuk e prima tappa al Jaswant Thada, il memoriale realizzato dal Maharaja Sardar Sigh in memoria del padre il quale funge tutt’ora da terreno di cremazione per la famiglia reale.
La seconda tappa ci porta invece a quello che è uno dei monumenti più importanti di Jodhpur: il Forte Mehrangarh. Iniziato nel 1459, la maggior parte della struttura esistente risale al XVII secolo. Dopo averlo visitato, scendiamo a piedi e ci inoltriamo nel vivo di questa città. Passiamo per quella parte da cui deriva il nome di “Città blu” e sembra di camminare all’interno di un’area rurale. Gli stretti vicoli dividono, da un lato e dall’altro, le case con le tipiche facciate in tinta blu. Storicamente questo colore veniva utilizzato per distinguere la casta più alta (ovvero quella dei bramini) dalle altre caste. Oggi questa tinta viene mantenuta ed usata da tutti per combattere il calore estivo e tenere lontani gli insetti.
La strada in discesa e ricolma di rifiuti, ogni tanto qualche escremento di vacca, il tutto misto all’acqua che, di tanto in tanto, scorre come rivoli attraversando da parte e parte per poi perdersi nei condotti laterali.
La gente è molto accogliente e con i loro sorrisi ci accompagnano verso la zona più caotica della città che è il bazar. Mi fermo accanto a due bambini con i quali faccio i miei soliti giochi per regalargli almeno un sorriso. Una di loro indossa un vestito con una patch a fiori gialli su sfondo bianco, due infradito neri che lasciano intravedere dei piedi sporchissimi e due occhi grandi talmente belli, nei quali non è possibile non perdersi. Lo faccio per un attimo ed anche se vorrei scoppiare in un pianto liberatorioper sfogarmi delle ingiustizie viste in questo paese assolutamente assurdo, ritorna in me il guascone. Io ci gioco. Loro mi sorridono.
Un cagnolino riposa su un muro anche lui con il bindi, il terzo occhio. Quello dell’anima che guarda oltre i nostri sensi e sinceramente, avendo due cani, sono certo che non ne abbia bisogno.
Il bazar è un caos così come quelli visti in precedenza. Il mio viso incontra quello di una miriade di gente diversa. Dal bambino in divisa che esce da scuola a quello che farla significherebbe avere una vita migliore. Dalla donna, sempre avvolta in tessuti colorati e con le mani decorate con henné, che compra verdure agli uomini, semplicemente seduti fuori dai loro locali o vicino ai loro baracchini che vendono frutta e verdura di ogni tipo. Altre volte,uomini e donne, semplicemente seduti ad attendere il passare delle ore. Il rumore è assordante ma ormai mi sono abituato. Ci fermiamo a mangiare in uno dei diversi locali che preparano il classico cibo di strada indiano.
Mangio un pakora ed una samosa abbastanza piccanti ma deliziose. Inizio a trasudare dal viso per la loro piccantezza ma mi rendo conto che chiedere cibo “no spicy” in India fondamentalmente è un ossimoro. Il lassi alle rose attenua il piccante e mi permette di proseguire in tranquillità verso il Mandor garden. Un parco abbastanza triste sul quale è inutile sprecare parole. Più divertente l’incontro con la cestaia. Con in mano un cesto in costruzione la guardo, inizio un video e lei mi indica tutte le ceste con la mano come fosse un invito a comprare. Mi abbasso, le chiedo il lavoro che ha nelle mani, lo continuo per un paio di giri prima di salutarla con un sorriso ed un namastè.
Rientramo in hotel alle 17.40. Per la prima volta in questo viaggio ho oltre 2 ore per me. Sistemo il bagaglio e finalmente, dopo sette giorni, riesco a fare una doccia con acqua calda. Un lusso avendo scoperto che ci si può tranquillamente lavare anche con quella fredda risottolineando quel “… niente è terribilmente importante” dell’aforisma di Terzani.
L’acqua lava. Punto.
Salgo in terrazza e raccolgo il bucato, in attesa di trascorrere l’ultima serata sotto le rovine di Jodhpur. Francesco Torrico
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