La sveglia suona ma ho gli occhi aperti già da un po’. Come sempre i bagagli sono già pronti così come i vestiti che dovrò indossare per affrontare il viaggio in bus da Jodhpur ad Udaipur attraversando i Monti Aravalli.
Lo facciamo in un piccolo bus che ci attende su una strada trafficata già abbastanza per l’orario con a lato il bazar che inizia a prendere vita mettendo in mostra tutta la frutta e gli ortaggi possibili. Lasciamo la città e dopo un lungo tratto di autostrada, con il nostro mezzo strapieno di bagagli sulla cappotta e legati con una cordicella non troppo affidabile, lasciamo la strada piana per iniziare la salita.
Attraverso gli Aravalli s’intravede un po’ di vegetazione più fitta. Di rado qualche villaggio, qualche baniano (albero sacro – Ficus benghalensis – da non confondere con il banano cosa che inizialmente ho fatto io leggendo il libro “La città della gioia”) e persone che percorrono a piedi enormi tratti di strada.
L’aria condizionata è opprimente ma lo è ancora di più l’aria che si respira all’uscita del bus una volta arrivati a Ranakpur nel parcheggio del tempio Giainista più grande dell’India: il Chaumukha Temple.
Più avanziamo, più i controlli sono serrati. Non è possibile fare foto seduti sulle scale del tempio così come non è possibile farle in posa all’interno. Cerchiamo di rubarcele uno con l’altro. Portare uno smartphone è possibile previo pagamento (cosa che per ovvie ragioni faccio). Una donna all’ingresso guarda prima i piedi per vedere se sono privi di scarpe e calzini, un altro addetto controlla le borse ed i biglietti. Le scale di accesso occultano in parte la bellezza che l’uomo è stato in grado di realizzare in questo luogo mistico. Con al collo la mia audio guida e le cuffiette, mi inoltro nel tempio e mi ritrovo immerso in una costruzione fatta di colonne e pareti che mostrano storie, leggende ed i personaggi mitologici legati ad esse. Ogni colonna una storia diversa. A contorno, decorazioni finemente ricamate con scalpelli, su pietra arenaria bianca, nell’arco di 50 anni da 2500 artigiani.
Con una sensazione di piacevole fresco sotto i piedi, inizio ad ascoltare il racconto della guida che non sto qui a riportare in quanto di facile ricerca su internet. Ciò che riporto sono i voti è l’emozione che si ha nel vedere e sentire, attraverso la narrazione di una voce maschile, tutta la storia ma soprattutto la filosofia di chi vive questa religione.
Gli giainisti seguono i seguenti voti:
1. Ahimsa: rispetto di “ogni” forma di vita in quanto interdipendente l’una dall’altra e quindi tutti nascono con il diritto di esistere;
2. Satya: Dire la verità senza mai ferire supportando il principio della non violenza;
3. Asteya: Non rubare.
4. Brahmacharya: Per i monaci è il voto di castità. Per i laici è la monogamia.
5. Aparigraha: Non acquisire più di quanto sia il necessario per la sopravvivenza (monaci).
Li avete letti?
Bene. Ora mettiamoci nei nostri panni e poniamoci delle domande.
Come sarebbe un mondo in cui tutte le religioni applichino il primo principio di rispetto verso ogni forma di vita? Cioè un mondo in cui l’uomo, invece di dedicarsi ad esempio al profitto a discapito della natura, metterebbe lo stesso al secondo posto salvaguardando così chi vi dona la vita pur avendo di meno.
Lo immaginate un mondo in cui ogni popolo, applicando la satya, senta il dovere di dire la verità senza mai ferire, nemmeno a parole e supportando la non violenza?
Più che utopia direi Magia.
Immagino i nostri politici, ad esempio, che nel rispetto delle leggi divine, rilascino un’intervista in cui dicono la verità senza alzare la voce. Un politico qualsiasi che va in TV dopo essere stato sonoramente sconfitto al referendum e dice “Lascio la politica” e che poi lo fa per davvero.
Immagino un mondo in cui venga applicata l’Asteya. Quel “non rubare” che i cattolici hanno come settimo comandamento. Ma non solo un non rubare relativo alla materialità. Pensate alla violenza sulle donne. Un uomo che urla contro, picchia o stupra una donna, non sta segnando per sempre la sua vita rubandole la dignità? Pensate a quanto sarebbe bello se, quello che cercano, lo riuscirebbero sempre a conquistare con la parola “amore”.
Ed infine, pensiamo ad un mondo che applica, come legge, l’Aparigraha. “Non acquisire più di quanto sia il necessario per la sopravvivenza”. Oggi vedo bambini che entrano in un negozio e chiedono con forza un gioco che nemmeno pensavano di volere. Vedo genitori che, dopo 39 “no”, modi dolci e minacce, crollano sotto i colpi del bimbo acquistando quell’oggetto. Una volta a casa, si rivede di nuovo quel bambino lasciare quell’oggetto che finirà, dopo qualche anno (se non qualche mese), nella spazzatura perché non più toccato dal giorno in cui lo aveva preteso.
Oggi quest’idea di possedere è endemica. Oggi non ho figli, ma se ne avessi uno lo porterei in uno slum in India per fargli vedere il sorriso di un bambino che ha solo un pezzo di stoffa con cui coprirsi, una madre che si prenderà cura di lui fino a quando non potrà rivestirlo di stracci e mandarlo ad elemosinare e 32 denti che quel sorriso lo manterranno per altri pochi anni così bello.
Queste sono le domande che mi pongo all’uscita dal tempio con la faccia rivolta al finestrino e cercando, nella fessura tra la tenda ed il bordo, altri pezzi di India.
Sostiamo a Sarya, un villaggio lungo la strada che ci porterà come ultima tappa ad Udaipur. Qui opto per il cibo di strada. In questi venti minuti mi dissocio dal gruppo, entro in una bettola e compro una samosa ed un cachori mangiando con le persone del posto. Siedo con loro, chiacchiero e ci scambiamo saluti nemmeno ci conoscessimo da una vita proprio come due vecchi amici prima dell’ultima tappa.
Ad Udaipur tutto è molto più occidentale. Giovani in jeans si mischiano a donne in sarj. Ragazzine ben vestite si confondono con i turisti che iniziano ad aumentare. Ne approfitteremo per vedere uno spettacolo di danza locale, fare un massaggio ayurvedico e garantirci un po’ di riposo prima di intraprendere il cammino successivo verso Jaipur.
Intanto resto qui con le mie domande, sognando un’utopica miscellanea tra il Giainismo e la società odierna occidentale, seduto sul terrazzo del Gangaur Palace Hotel, solo, con in mano l’ultima sigaretta della giornata e le luci di una città che dorme. Francesco Torrico
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