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MONDO – In India con Francesco: Jaipur, il Palazzo del Vento e il Tempio delle scimmie

La sveglia alle 5 del mattino è un crimine contro l’umanità. È per questo che quando mi dicono “Vai in vacanza?”, rispondo sempre che, ogni volta che torno da un viaggio (no vacanza), ci sarebbe bisogno di una settimana per riprendersi.

Dopo 3 giorni siamo di nuovo in cammino. Questa volta direzione Jaipur.

Il treno ferma per 20 minuti a Chittaurgarh e diventa un mercato perlopiù di cibo. Ne approfitto, dato che sono le 8, mangiando due samosa belle calde realizzate con mano ed ingredienti di dubbia provenienza.

Il viaggio è gradevole. Nonostante i cartelli “Vietato fumare”, chiedo gentilmente al controllore se c’è un posto dove poterlo fare ed altrettanto gentilmente, mentre il treno cammina, mi apre la porta e dice “Puoi farlo qui”. Mi siedo con i piedi che mantengono la porta aperta e cerco di abbandonarmi un attimo. La stanchezza comincia a sentirsi, ma saranno ancora ore di tour de force soprattutto perché, se come ho raccontato nelle altre città, traffico era estenuante, Jaipur non sarà mai come Delhi, ma è comunque la capitale del Rajastan.

Arriviamo all’ora di punta per il traffico. Ci inoltriamo nella baraonda e raggiungiamo un hotel decente. Il tempo di una lavata di faccia, cambio maglia e siamo già al Palazzo dei venti (HawaMahal). Qui la particolarità sta nella storia. Questo palazzo infatti è stato costruito per fare in modo che le donne reali potessero osservare, dalle numerose finestre, le feste di strada senza essere viste. 

Nel gruppo c’è qualche piccolo screzio ma la cosa è normale. Un viaggio come questo ha, tra i suoi contro, l’esigenza del singolo.

Resta tutto comunque sopportabile e, valutando sempre l’aforisma del primo articolo, (“… niente è davvero drammatico…”), entro anche io in quella logica gustandomi il tramonto sul terrazzo messo a disposizione da Bilal, ed un caffè (che per quanto buono, era comunque acqua di pozzo per il gusto di noi meridionali) offerto da un mercante che conosce Milano meglio di qualche suo abitante. Dopo avermi parlato dei suoi via vai tra l’India e la città della Madonnina gli dico: ”Sai dirmi qual è la cosa più bella di Milano”?

Dopo aver avuto come risposta “Duomo”, “Brera” e “Piazzale Loreto” (per il quale storicamente parlando sono d’accordo se devo considerare le ore 3.40 del 29 aprile del 1945), lo blocco e gli dico: ”Caro mio, la cosa più bella di Milano, è il treno per Napoli”.

Trascorro la sera mangiando Alo Malai Kofta, ovvero l’ennesimo piatto Veg composto da patate e formaggio immerse in un sughetto ricco di spezie che, seppur non piccante per il cuoco, in caso di eruttazione, mi trasformerebbe nel piccolo draghetto Grisù. Per quanto ami il piccante, veramente non so cosa significhi, per un Indiano, mangiare piccante.

Il giorno dopo è la volta dell’Amber Fort. Opto per le gambe questa volta, a differenza dell’elefante, e salgo le scale acciottolate che mi portano in breve tempo, sul primo dei quattro cortili che si apre su uno dei quattro livelli. La parte più caratteristica è lo Shesh Mahal o palazzo degli specchi. Qui, un clima fresco creato artificialmente, soffia attraverso una cascata (attualmente priva di acqua) che, passando attraverso un giardino formale, si perde all’interno del palazzo stesso. 

Facciamo una piccola sosta al ritorno sulle numerose bancarelle che affollano l’ingresso e mangio una frittella di patate con del chapati che trovo gustose, prima di andare al tempio delle scimmie o Galta Jil. Come l’altro parco, chi la fa da padrone è l’incuria. Molta spazzatura presente (così come ovunque) ma in compenso faccio due esperienze bellissime.

In India, così come in altri luoghi già visitati come Nepal ed Indonesia, i Sadhu nelle foto, generalmente sono finti. Sono persone che, così come i classici “gladiatori” al Colosseo, fanno quel mestiere. Vestono da Santoni e chiedono foto ai turisti in cambio di soldi. Ma un vero Sadhu non chiede mai dei soldi. Accetta solo le offerte, generalmente cibo, di cui ha bisogno in quel momento. Qui incontro un signore in barba e rasta bianchi avvolti in un turbante arancione. Dopo averlo visto nutrire un macaco, mi ci avvicino scambiandoci un sorriso. Ci mettiamo in posa per una foto. Lui sorride senza guardare in camera e successivamente, con un cenno della mano, rifiuta la mia offerta di 10 rupie. Ora non so e non saprò mai chi fosse, però, pensando agli innumerevoli incontri con mani allungate in cerca di “money”, quella sua semplicità nell’espressione e quella fierezza mostrata nello sguardo, mi ha dimostrato, per l’ennesima volta che “niente è veramente indispensabile”.

L’altro lo faccio alla vasca delle abluzioni. Qui trovo due bambini seduti su una panchina e parte del mio gruppo intento a fotografare la valle sottostante. Mi siedo accanto a loro, ci guardiamo con area seria, e parte la prima di una lunga serie di risate che continuerà per oltre 5 minuti ininterrottamente. Cinque minuti che scaricano tensioni e stanchezze. Che mostrano ancora una parte bella del nostro essere. Quella in cui uno sconosciuto dall’aspetto di un santone e vestiti occidentali incontra due splenditi bambini e, senza scambiarsi nemmeno una parola, si “crepano” di risate insieme. 

Torno in hotel, faccio una doccia e trascorro la serata in terrazza. Rientro in camera e provo il mio abbigliamento indiano nuovo di pacca. Di certo non potrò presentarmi in disordine al cospetto di una Meraviglia. Francesco Torrico

SUL TRENO PER JAIPUR
HAWA MAHAL O PALAZZO DEL VENTO
AMBER FORT
TEMPIO DELLE SCIMMIE
INCONTRI CASUALI

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