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MONDO – In India con Francesco: il Taj Mahal

L’ennesimo treno lo prendiamo in situazione precaria. Il binario 1 della stazione di Jaipur è strapieno e la gente è ammassata per accaparrarsi uno spazio nei vagoni generici. All’arrivo del treno, tra la massa che si sposta, ci muoviamo verso il vagone C2 cercando di farci quanto più spazio possibile ma soprattutto non sapendo dove sia. Una volta su, riusciamo finalmente a tirare un sospiro di sollievo. Abbiamo i nostri posti a sedere, un treno che arriverà ad Agra ed una costruzione maestosa ad attenderci.

Dopo circa 4 ore passate tra il sonno ed il chiacchierio, arriviamo alla stazione di Agra dove il treno ferma la sua corsa. Ogni arrivo è un delirio. Vieni assalito da persone che vogliono portarti in albergo, persone che vogliono venderti una cianfrusaglia, persone che elemosinano e tutto ciò, tra la calca di valigie che ti urtano, zaini contro i quali finisci per sbattere ma, in questa Babilonia generale, si regge un equilibrio spiegabile solo se ci si trova immersi.

Il tuk tuk, dopo essersi preso una bastonata sulla fiancata anteriore da un poliziotto (Si. In India la polizia è provvista di bastone!) ci porta nell’ostello in cui ci fermeremo per una notte. La polizia ci ferma di nuovo dopo 200 metri, ma questa volta capiamo il perché. Avanti a noi passa un corteo. A capo quattro adulti portano un signore anziano adagiato su di una barella composta da due aste di bambù ed un telo. Un altro telo copre l’uomo ed il sesso è riconoscibile soltanto dalla testa lasciata fuori. Si vedono bene i capelli, di colore arancione, in quanto cosparsi di henné. Bianca è la barba lunga di qualche giorno. Dietro un po’ di persone che cantano in maniera mesta. Siamo di fronte al nostro primo funerale. 

D’avanti all’ingresso dell’ostello, una cagnolina cura i suoi due cuccioli mentre, poco prima della porta d’ingresso, due capre di colore nero legate, riposano tranquillamente tra il via vai di turisti.

L’ingresso è quello classico di un ostello con zaini in ogni dove e le mura ricoperte di scritte di viaggiatori di passaggio che lasciano il proprio ricordo. Prendiamo la nostra stanza in comune non prima di aver scritto “FORZA NAPOLI” con un pennarello indelebile sulla parete, ancora più marcato di quel “Forza Napoli” trovato scritto, a penna, da un turista con la mia stessa fede. 

Mettiamo tutti un minimo di ordine nelle cose. Tiro fuori dallo zaino la kurta bianca fatta realizzare su misura a Jaipur, mi vesto come gli indiani a festa, sciarpa rossa al collo ed attendo gli altri nello spazio comune prima di uscire.

Sono a due passi da una delle sette meraviglie del mondo moderno. Intorno un mondo indietro di 60 anni circa rispetto al nostro. Fogne a cielo aperto, mucche libere, negozietti che si fanno strada in piccole casupole sporche e spesso abitate in maniera promiscua da persone ed animali. Molta incuria, molta miseria. Molta polizia, molti scooter, molto rumore.

Superiamo la biglietteria. Il controllo personale è serrato. Per i motivi che conosco, lavorando in un bene UNESCO, nemmeno una matita può passare evitando così che eventuali idioti, lascino segni sulle candide mura di colore bianco del mausoleo. Ho con me solo il passaporto ed il marsupio. Superati i controlli, percorriamo una breve strada contornata da attività ben tenute e diverse da quelle viste esternamente. Tutto è più curato, così come curato è lo spazio intorno. Cammino con il cuore che batte pian piano sempre più forte ricordando la prima volta in cui, da bambino, mi ritrovai con mamma e papà al cospetto del Colosseo. E poi la maestosità di Chichen Itza in Messico, lo sguardo perso sulla baia di Rio de Janeiro appollaiato alla base del Cristo Redentore e l’ultimo passo che divideva il mio sguardo dalla vista di Macchu Picchu in Perù. 

Mi dissocio per un attimo dagli altri, supero il viale contornato di verde ed edifici in arenaria rossa. Di fronte all’arco la luce forte del sole mi impedisce la vista. È lui ad accecarmi prima della vista del Taj Mahal. 

Come ogni altro articolo non sono qui a ricordarvi notizie trite, ritrite e ritrovabili ovunque su internet. Sono qui a descrivervi le emozioni che provo al contatto con i luoghi che visito. Quest’edificio maestoso, è stato realizzato dall’imperatore moghul Shāh Jahān in memoria dell’amatissima moglie Arjumand BanuBegum. È il monumento, tra le sette meraviglie del mondo moderno, che resta lì, tra la miseria e la nobiltà, tra la povertà e la ricchezza, tra la corruzione e la giustizia a ricordare che, su tutto, sovrasta l’amore. 

La giornata si perde lì. Tra le prime foto e gli occhi persi in ogni centimetro di questo angolo di mondo perché sai che difficilmente ci sarà un’altra volta nella vita. 

Mi siedo al suo cospetto e scrivo.

Penso al messaggio d’amore dato dall’imperatore. Apro il cellulare e cerco, tra le foto fatte di quest’avventura che si concluderà a Varanasi, e scorgo quella con la scritta: 

“Live the Life you love. Love the Life you live”

Scattata qualche giorno prima in un rooftop (terrazzo adibito a ristorante/bar). Credo che questa frase potrebbe insegnare molto a tutti i popoli che vivono in guerra; a chi schiavizza la condizione delle donne iraniane e quelle sotto il regime talebano in Afghanistan; a chi pensa al potere ed al profitto dimenticando chi soffre o sfruttandolo; a chi violenta e a chi schiavizza; a chi non fa nulla per far sorridere un bambino. A chi, sotto i colpi dell’ingiustizia, ha trovato una morte ma non ha ancora trovato giustizia come Giulio Regeni.

Lo scrivo di fronte a quintali di marmo messi a perenne ricordo dell’amore e della sua potenza prima di inoltrarmi nelle abluzioni del Gange. Delle sue acque, sacre per gli induisti, putride per noi occidentali. Al cospetto delle pire infuocate che concluderanno, per loro, quel ciclo di nascita e morte, per me, solo un’altra immensa esperienza di viaggio. Francesco Torrico

IL TAJ MAHAL
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