Varanasi è tutto ciò che in giro per il mondo non ho mai visto. Varanasi è inizio e fine. Acqua e fuoco. Sacralità verso gli elementi naturali da parte dei veri credenti e menefreghismo degli stessi da parte di chi, pur rispettando le regole religiose, trova meno interesse nel dimostrare attaccamento alla Madre Terra.
Arrivo all’aeroporto con un volo interno e con un’ora di ritardo. Saliamo sul bus con 14 posti. Peccato che uno è per l’autista. Quindi divido il posto accanto al guidatore con il pomello del cambio che prova a fare amicizia con il mio ginocchio destro per un’ora e più.
Oltre un’ora, con 4/6 di culo sul sedile e gli altri poggiati sull’aria, prima di mettere piede a terra ed arrivare in ostello. Con i soliti tuk tuk? Si. Ma fino alle strade percorribili. Gli ultimi 500 metri ce li spariamo tra le strette vie della parte storica a piedi schivando vacche, persone, motorini, cani, pattume, offerte e sterco vaccino. Tutto con due zaini.
Una doccia veloce. L’ennesima con l’acqua fredda che ormai il mio corpo accetta senza dare segni di sofferenza. Tolgo i vestiti sudici e metto gli altri lavati da me con il sapone di Marsiglia al Corsical, quindi non proprio pulitissimi, ed iniziamo il tour della città.
La guida, attraverso l’intricata rete di stradine, ci conduce ad una delle diverse scale che portano al Gange o meglio sul fiume sacro che, per tutti gli induisti, è conosciuto come Madre Ganga. La prima cosa che vediamo, data l’ora, è la preparazione per il Ganga Aarti. Il cammino invece, sulla sponda sinistra del fiume, ci porta al Manigarnika Ghat ossia il luogo in cui, 24 ore su 24, vengono bruciati i corpi di coloro che, secondo la credenza, una volta cremati a Varanasi, raggiungono il paradiso di Shiva uscendo dal ciclo di nascita e morte.
Ci sono diverse pire che ardono, altre pronte per ardere. Ci sono persone intende a raccogliere le ceneri di coloro che sono già bruciati per essere versate nel fiume. Ci sono morti pronti ad essere immersi per l’ultima volta nelle acque del Gange prima di essere adagiati sulla catasta di legna. Ci sono mucche che si riscaldano e cani che fanno lo stesso. La pira alla quale mi avvicino contiene un corpo che riesco a vedere bene mentre arde. Di fronte qualcuno, forse un parente, che esegue un rito. La guida spiega diverse cose ma io continuo con gli occhi a perdermi in ciò che, alla nostra cultura, può sembrare la rappresentazione degli inferi mentre, per loro, la liberazione dell’anima dalla vita terrena.
Sono con i piedi sulla terra, di fronte ho il fuoco che arde corpi, accanto l’acqua del Gange che scorre continua e l’aria afosa che chiude intorno a me il ciclo dei 4 elementi. Aria, acqua, terra e fuoco in un unico luogo.
Varanasi è morte alla vista di un occidentale. È nuova nascita agli occhi di un’induista.
Dal fuoco delle pire, all’acqua di Madre Ganga. Dal rito del fuoco del Ganga Aarti rivolto all’acqua di Madre Ganga.
Il Ganga Aarti viene fatto in tre parti dell’India (Haridwar, Rishikesh e Varanasi) sempre di fronte al fiume Gange. Si dice che, almeno una volta nella vita, bisognerebbe partecipare a tutti e tre ma credo che uno possa bastarmi per capire l’energia che trasmette. Tale energia penetra in colui che la vive grazie ai mantra cantati, al suono delle campane, ai tamburi ma, soprattutto, all’accensione delle lampade che vengono maneggiate dai pandit (o santi) in veste color zafferano sul Ghat intorno a noi fedeli e turisti in un tripudio di colori e di luci che galleggiano sulla riva.
Assistiamo alla cerimonia due volte. La seconda in occasione del Diwali: la festa della luce che vince sulle tenebre ma la festa, almeno alla mia vista, anzi al mio udito, si trasforma solo in un’esplosione di fuochi che continueranno fino a notte inoltrata.
In mattinata l’areo ci riporta a Delhi. Affittiamo un driver in 6 e riusciamo ad arrivare in tempo alla moschea di Jama Masijd, questa volta in tempo per vederla e chiudere il nostro programma.
Però l’India, a mio avviso , ha un nome che primeggia su tutto ed è quello di Gandhi. La grande anima. Il Mahatma. Riesco ad arrivare in orario per chiudere il mio viaggio, a mani giunte, rivolte al Raj Ghat, il monumento commemorativo in marmo nero e fiamma perenne che ricorda il luogo in cui quest’omino, vestito di tunica e due semplici sandali, ha imparato al mondo che è possibile vincere con l’arma più bella: quella della non violenza.
Forse sarà che il viaggio e finito. Forse sarà che veramente esiste un’anima. Fatto sta che di fronte a quella fiamma che arde a memoria, ho sentito un senso di pace. Mi sono sentito in sintonia con l’universo.
Sono sempre stato una persona razionale. Il nero è nero. Il bianco è bianco. Il grigio riesco a vederlo solo se miscelo le due tonalità. Di tutto quello che ho visto in India oggi, posso dire che Gandhi è la cosa di cui più il mondo avrebbe bisogno.
Questo viaggio mi ha insegnato tanto e niente in quanto mostrato cose che in realtà già conoscevo. I miei occhi invece hanno visto tanto.
Ho visto gli slum lungo il perimetro di stazioni e città piene di mercanti che gestiscono negozi lussuosi. Ho visto il giainista che vive grazie alle offerte rifiutando ciò che è superfluo e persone chiedere soldi per ogni cosa. Ho visto hotel da nababbi e case fatte di cartone. Ho visto anche chi una casa non la tiene. Ho visto templi di ogni dimensione. Ho visto la gente pregare, la gente far nulla. L’ho vista piena di vita negli occhi dei bambini o morta dentro sui gradoni di Varanasi. Ho ballato con i bambini in un market di strada pieno di sporcizia. Ho sentito la puzza di urina mentre sceglievo tra samosa o chapati. Ho visto i cammelli camminare su di una duna nel deserto al risveglio. Ho sentito i mantra. Ho sentito l’odore del charas penetrarmi il naso ed il rumore di un bastone sbattuto sul cofano di un tuc tuc. Ho sentito i clacson ed il silenzio.
Ho visto un mondo veramente ingiusto e da quel mondo ho imparato che si può, anche in quelle condizioni, sorridere. Grazie a chi ha seguito il cammino delle mie emozioni verso l’India. Grazie ai miei compagni di viaggio Alice, Alina, Anna, Elena, Livia, Pierpaolo, Luca, Pietro, Maurizio, Fiammetta, Michela, Gemma e Carmela. Grazie a Giuseppe Nicodemo, compagno di viaggio a distanza. A mia moglie che mi sopporta e supporta quando decido di partire. Grazie a me. Grazie al viaggio. Namastè
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